ROCCA DI DOZZA IMOLESE 2020


Bruno Samorì. Come in un sogno…
A cura di Gigliola Foschi
Evento: Rocca di Dozza

Rocca di Dozza | Dozza (Bo)
20 settembre – 8 novembre 2020

 

La presentazione alla Mostra della Curatrice

Un po’ illustrazioni, un po’ fotografie, un po’ collage, le immagini magiche e giocose di Bruno Samorì sfuggono a ogni definizione di genere. Le sue opere sono in un certo senso delle soglie che conducono in una strana dimensione, posta al di là dello specchio di Alice: un mondo antiprospettico, dove convivono e… (leggi tutto)

Un po’ illustrazioni, un po’ fotografie, un po’ collage, le immagini magiche e giocose di Bruno Samorì sfuggono a ogni definizione di genere. Le sue opere sono in un certo senso delle soglie che conducono in una strana dimensione, posta al di là dello specchio di Alice: un mondo antiprospettico, dove convivono e si rimandano tra loro dettagli di mosaici bizantini e di icone russe, campi arati simili a verticali tavolozze colorate e castelli, solitarie case rurali, borghi medievali incantati… Egli raccoglie con amore frammenti di paesaggi e dell’arte antica per farli rivivere grazie a complesse tecniche di photo-collage digitale, che gli permettono di far dialogare il mondo della pittura con quello della fotografia, la dimensione naturalistica con quella astratta, la realtà con la finzione, il presente con il passato. È come se egli riscrivesse una sorta di fiabesco testo visivo, composto da dettagli di opere d’arte e da fotografie fatte da lui stesso, magari in viaggi recenti o compiuti nel passato. Samorì crea cioè un montaggio dove si raccolgono e si radunano frammenti di immagini che costruiscono altre immagini basate sull’immaginazione, la ricerca, il ritrovamento. Egli procede per associazioni, creando una rete di relazioni inaspettate, capaci di svelare e ridare visibilità a dettagli spesso quasi celati all’interno di opere complesse. Nella serie Drappi Rossi (2017-2019), ad esempio, pone in evidenza alcuni manti rossi, simili a volanti nuvole di bambagia, che ricorrono, semicelati nella ricchezza dei dettagli delle opere, in molte icone che ha fotografato soprattutto nel Museo Tretyakov di Mosca.
È come se egli, nel realizzare alcune sue opere, avesse assunto un atteggiamento conoscitivo e riflessivo simile a quello del filosofo Georges Didi-Huberman quando, nell’ammirare gli affreschi del convento di San Marco a Firenze, dipinti dal Beato Angelico, anziché concentrare la sua attenzione sulla scena centrale dell’affresco Madonna delle ombre, osserva ciò che in genere viene solo visto distrattamente, ovvero il cosiddetto “registro decorativo” che sta alla base del dipinto. Come mai, si chiede il filosofo, anche i più preparati storici dell’arte hanno indagato in modo approfondito ogni attributo iconografico dei dipinti “centrali” e non hanno prestato “la minima attenzione allo stupefacente fuoco d’artificio colorato che si dispiega appena al di sotto, su tre metri di larghezza e un metro e cinquanta di altezza?” (1). Da questa riflessione inizia il suo celebre libro Storia dell’arte e anacronismo delle immagini in cui s’impegna a “restituire dignità storica, ovvero sottigliezza intellettuale ed estetica, a oggetti visivi considerati sino a qual momento inesistenti, o perlomeno privi di significati.” (2).
Certo i lavori di Samorì, diversamente dall’ampio saggio di Didi-Huberman, non pretendono di avere un approccio storiografico e teorico, ma ciò che li avvicina è l’attitudine a soffermarsi e ridare valore a quanto si trova ai margini dello sguardo, ai dettagli in apparenza “minori”. Così, oltre alla serie Drappi Rossi, anche in Trame di Linee (2015-2020) e Dal Mondo dei Mosaici Bizantini (2015-2020) il nostro autore fa emergere e restituisce centralità visiva a ciò che è laterale e non visto: un fatato alberello scoperto nel pavimento del Duomo di Siena, un minuto particolare di un vaso dei Manfredi esposto al MIC di Faenza, un curioso albero tondo tratto da un mosaico del Palazzo dei Normanni di Palermo…. I lavori di Samorì, se vogliamo, rientrano, seppur con un approccio originale, all’interno di una pratica artistica contemporanea molto diffusa e ramificata: quella del recupero di immagini già esistenti. Si parla di found footage quando a essere recuperati e rivisti sono frame o sequenze di film e video; di found photo quando si tratta di fotografie rinvenute. Ma tale riuso di materiale trovato (al limite anche nel proprio stesso archivio), come evidenzia anche il suo lavoro, si presta a strategie visive estremamente differenziate anche se tutte basate sull’incontro, la scoperta o l’analisi di opere già esistenti. Samorì dispone e organizza le sue immagini finali in un ordine compositivo che non è più quello della realtà, ma quello delle corrispondenze, delle simpatie e delle “affinità elettive” (per usare un termine caro sia a Goethe che a Walter Benjamin) fino a creare un universo visivo incantato eppure rigoroso.
Non ha caso, a testimonianza di quanto siano importanti per lui – scienziato di formazione – la precisione e i vincoli compositivi, Bruno Samorì ama citare questa frase di Igor Stravinsky: “Ora in arte, come in ogni cosa, si costruisce soltanto su un terreno resistente. Ciò che non consente appoggio non consente neanche movimento… Più costrizioni ci si impone, più ci si disfa delle catene che impediscono la libera espressione dello spirito”. Tutto nelle sue immagini è infatti organizzato in modo coerente e perfetto sulla base del progetto visivo che ha deciso di impostare. Ma di che tipo di perfezione si tratta? Il nostro autore, diversamente da molti suoi contemporanei, non crea opere stranianti che smontano e disorganizzano l’ordine visivo. Non agisce per fratture e per spiazzamenti. Le sue immagini non suggeriscono emozioni perturbanti o sconcertanti, ma tutto all’opposto una sorta di “reincantamento”. Il suo sembra un invito a indirizzare lo spettatore verso giocose scorribande mentali, impensabili nell’ordine normale del mondo. Avventure dove le cose non subiscono più le ingiurie del tempo, del decadimento o del cambiamento. Nella serie Dal Medioevo (2016-2020) i castelli e le storiche dimore che svettano solitarie su luminosi paesaggi geometrici paiono figure immerse in un tempo immobile e cristallino, in un universo più vicino al mito e alla poesia che non alla realtà. Un tempo dove nulla può scalfirne l’assolutezza o corrompersi, modificarsi…. Egli sottrae così le sue immagini a ogni collocazione temporale non per portarle fuori dalla Storia, ma per far emergere ogni cosa, ogni dettaglio nella sua bellezza, per trasformare la Storia in un dono prezioso da custodire con cura.
Tutto ciò è curioso, perché la fotografia – da sempre considerata uno strumento che fissa il qui e ora e quindi segnata da una sottile malinconia connessa a un vedere sempre ciò che è già accaduto, già trascorso – nel lavoro di Samorì perde tale specificità per entrare in una nuova dimensione atemporale, sospesa e incantata. E questo anche grazie a una composizione mai prospettica, ma sempre su un unico piano. Come se il suo sguardo non fosse condizionato dalle nozioni della prospettiva e dello spazio euclideo, le sue opere sembrano cioè paradossalmente obbedire ai canoni della “prospettiva rovesciata” delineata dal grande teologo russo Pavel Florenskij. Attraverso la “prospettiva rovesciata”, Dio – sostiene Florenskij – guarda l’uomo illuminandolo con i suoi raggi visivi, e l’uomo li contempla abbassando lo sguardo per riceverli. Certo l’opera di Samorì non si può dire segnata da tale atteggiamento spirituale, eppure egli – come per l’icona bizantina – rigetta la profondità di campo tipica delle prospettiva, per proporre una visione dove le cose, anziché disporsi lungo linee di fuga che spingono lo sguardo verso l’infinito dell’orizzonte, tutto all’opposto si mostrano e s’impongono come presenze un po’ enigmatiche, un po’ giocose che nella loro fissità sembrano volerci chiedere: “Ma tu lo sai da dove vengo? che storia ho?”. Con un tocco fiabesco e immaginifico Samorì compone infatti un universo costituito da figure “ritagliate” che emergono e si librano senza peso da un fondo nero, brillante e senza tempo, proprio come in un sogno…
Ma – si chiederà qualcuno – perché usare come fondale il nero, un colore non colore, da sempre emblema del buio e dell’ombra? In verità qui il nero non ha nessuna valenza simbolica o negativa, ma agisce come un alone di silenzio che attornia le cose e le fa emergere luminose, conferendo loro importanza e concentrazione. Possiamo pensare alle sue immagini come a uno spartito musicale in cui il silenzio del fondo nero s’incarna in una pausa che permette al suono di emergere con la sua forza cristallina e poi ne prolunga l’eco. Nel mondo antico si distingueva tra due tipi di nero: ater, il nero opaco, poi divenuto un simbolo negativo, e niger, il nero brillante. Ebbene il nostro autore usa il niger: questo nero brillante che non corrompe le cose, non ha qualità espressive peculiari, ma funziona come gli spazi bianchi che contornano le lettere per renderle più intellegibili e visibili. È un silenzio diacritico che separa, distingue e definisce. Scolpite nel silenzio ecco allora avanzare verso di noi figure che compongono un mondo magico fatto di alberelli solitari, castelli medievali da sogno, paesaggi cristallini mai attraversati da una nube, cittadelle fortificate avvolte strettamente fra le mura, piccole chiese da fiaba, drappi rossi volanti…
1) Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p.14
2) Idibem, pp. 14-15

Little illustration, a little photograph, a little collage, the magical and playful images of Bruno Samorì escape any definition of the genre. His works are… (read more…)

Little illustration, a little photograph, a little collage, the magical and playful images of Bruno Samorì escape any definition of the genre. His works are in a certain sense the thresholds that lead into a strange dimension, placed beyond Alice’s mirror: an anti-perspective world, where details of Byzantine mosaics and Russian icons coexist and refer to each other, plowed fields similar to vertical colored palettes and castles, solitary rural houses, enchanting medieval villages … He lovingly collects fragments of landscapes and ancient art to revive them thanks to complex digital photo-collage techniques, which allow him to make the world of painting dialogue with that of photography, the naturalistic dimension with the abstract one, reality with fiction, the present with the past. It is as if he were rewriting a sort of fairytale visual text, composed of details of works of art and photographs made by himself, perhaps in recent journeys or made in the past. That is, Samorì creates a montage where fragments of images are collected and gathered to construct other images based on imagination, research, discovery. He proceeds by associations, creating a network of unexpected relationships, capable of revealing and restoring visibility to details that are often almost hidden within complex works. In the ”Drappi Rossi” series (2017-2019), for example, he highlights some red mantles, similar to flying clouds of cotton wool, which recur, half-hidden in the richness of the details of the works, in many icons that he photographed especially in the Tretyakov Museum in Moscow.

 

It is as if he, in creating some of his works, had assumed a cognitive and reflective attitude similar to that of the philosopher Georges Didi-Huberman when, admiring the frescoes of the convent of San Marco in Florence, painted by Beato Angelico, rather than just concentrating his attention on the central scene of the ”Madonna delle ombre”

fresco, observes what is generally only seen casually, namely the so-called “decorative register” at the base of the painting. Why, the philosopher wonders, even the most knowledgeable art historians have thoroughly investigated every iconographic attribute of the “central” paintings and have not paid “the slightest attention to the amazing colorful firework that unfolds just beyond below, three meters wide and one meter and fifty high? ” (1). From this reflection begins his famous book Storia dell Arte e anacronismo delle immagini in which he undertakes to “restore historical dignity, that is intellectual and aesthetic subtlety, to visual objects that were considered non-existent, or at least devoid of meaning.” (2).

 

Of course, Samorì’s works, unlike Didi-Huberman’s extensive essay, do not claim to have a historiographical and theoretical approach, but what brings them closer is the aptitude to pause and give value to what is at the margins of the gaze, to the apparently “minor” details. Thus, in addition to the ”Drappi Rossi” series, also in ”Trame di Linee” (2015-2020) and From the ”Dal Mondo dei Mosaici bizantini” (2015-2020) our author brings out and restores visual centrality to what is lateral and not seen: a fairy tree discovered in the floor of the Cathedral of Siena, a particular minute of a vase by Manfredi exhibited at the MIC in Faenza, an artistic practice: that of recovering existing images. We talk about found footage when it is frames or sequences of films and videos that are recovered and reviewed; by found photo when it comes to founding photographs. But this reuse of found material (even in his archive), as his work, also highlights, lends itself to extremely differentiated visual strategies even if all based on the encounter, discovery or analysis of existing works. Samorì arranges and organizes his final images in a compositional order that is no longer that of reality, but that of correspondences, sympathies and “elective affinities” (to use a term dear to both Goethe and Walter Benjamin) to the point of creating an enchanted yet rigorous visual universe.

 

Not by chance, as evidence of how important for him – a scientist by training – precision and compositional constraints, Bruno Samorì loves to quote this phrase by Igor Stravinsky: “Now in art, as in everything, one builds only on the resistant ground. What does not allow support does not even allow movement… The more constraints one imposes, the more one gets rid of the chains that prevent the free expression of the spirit ”. Everything in his images is organized coherently and perfectly based on the visual project he has decided to set up. But what kind of perfection is it? Our author, unlike many of his contemporaries, does not create alienating works that disassemble and disorganize the visual order. It does not act for fractures and displacements. His images do not suggest disturbing or disconcerting emotions but on the contrary a sort of “re-enchantment”. His seems an invitation to direct the viewer towards playful mental forays, unthinkable in the normal order of the world. Adventures where things no longer suffer the ravages of time, decay or change. In the ”Dal Medioevo” series (2016-2020), the castles and historic residences that stand alone on bright geometric landscapes appear to be figures immersed in a still and crystalline time, in a universe closer to myth and poetry than to reality. A time where nothing can scratch its absoluteness or be corrupted, modified… He thus subtracts his images from any temporal location not to take them out of history, but to bring out everything, every detail in its beauty, to transform history into a precious gift to be carefully preserved.

 

All this is curious, because photography – which has always been considered an instrument that fixes the here and now and therefore marked by a subtle melancholy connected to always seeing what has already happened, already passed – in Samorì’s work loses this specificity to enter in a new timeless dimension, suspended and enchanted. And this also thanks to a composition that is never perspective, but always on a single plane. As if his gaze were not conditioned by the notions of Euclidean perspective and space, his works seem paradoxical to obey the canons of the “inverted perspective” outlined by the great Russian theologian Pavel Florensky. Through the “inverted perspective”, God – says Florensky – looks at man, illuminating him with his visual rays, and man contemplates them lowering his gaze to receive them. Certainly, Samorì’s work cannot be said to be marked by this spiritual attitude, yet he – as for the Byzantine icon – rejects the depth of field typical of perspectives, to propose a vision where things, rather than arrange themselves along lines of flight that they push their gaze towards the infinity of the horizon, everything on the opposite shows themselves and imposes themselves as somewhat enigmatic, somewhat playful presences that in their fixity seem to want to ask us: “Do you know where I come from? what story do I have? “. With a fairy-tale and imaginative touch Samorì, composes a universe made up of “cut out” figures that emerge and hover weightlessly from a black background, brilliant and timeless, just like in a dream.

 

But – someone will ask – why use black as a backdrop, a non-color color, which has always been an emblem of darkness and shadow? In truth, here the black has no symbolic or negative value but acts as an aura of silence that surrounds things and makes them emerge luminous, giving them importance and concentration. We can think of his images as a musical score in which the silence of the black background is embodied in a pause that allows the sound to emerge with its crystalline strength and then prolongs its echo. In the ancient world, two types of black were distinguished: “ater”, the opaque black, which later became a negative symbol, and “niger”, the bright black. Well, our author uses niger: this brilliant black that does not corrupt things has no peculiar expressive qualities but works like the white spaces that surround the letters to make them more intelligible and visible. It is a diacritical silence that separates, distinguishes, and defines. Sculpted in silence, then, figures advance towards us that make up a magical world made of lonely trees, medieval dream castles, crystalline landscapes never crossed by a cloud, fortified citadels wrapped tightly between walls, small fairytale churches, flying red drapes.

La Curatrice: Gigliola Foschi

Storica e critica della fotografia, fa parte del comitato di MIA Photo fair.  Ha curato mostre presso gallerie,istituzioni pubbliche e festival fotografici italiani e stranieri. Ha insegnato per numerosi anni Storia della Fotografia presso l’Istituto Europeo di Design e attualmente insegna presso l’Istituto Italiano di Fotografia, entrambi di Milano. Ha a lungo collaborato con le pagine della Cultura dell’Unità, con Diario della settimana  e con numerose testate di settore. Suoi saggi sono stati pubblicati in vari libri e cataloghi. Hainoltre pubblicato il libro : Le fotografie del silenzio. Forme inquiete del vedere, Mimesis/Accademia del silenzio, 2015.

Historian and critic of art and photography is part of the MIA Photo Fair committee. She curated exhibitions at galleries, public institutions, and Italian and foreign photographic festivals. She taught History of Photography for many years at the European Institute of Design and currently teaches at the Italian Institute of Photography, both in Milan. She has long  ollaborated with the pages of the Culture of Unity, with Diary of the week, and with numerous sector publications. Her essays have been published in various books and catalogs. She has also published the book: ”Le fotografie del silenzio. Forme inquiete del vedere”. Mimesis/Accademia del Silenzio, 2015.

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